ALBERI D’APPARTAMENTO
Quell’estate sembrava non finisse mai, soffocante, irrespirabile, calda ed umida. Diana osservava le foglie del mastodontico tiglio argentato, affacciata al balconcino che dava sul cortile interno. I rami più grandi si erano estesi così tanto che si potevano toccare con la punta delle dita. Le foglie più giovani vibravano delicatamente. Sembravano entrare in casa, si poteva guardare il vento che vi frusciava attraverso, ed osservarne il movimento. L’aria danzava tra le fronde come un ballerino nudo sul palco.
Un bruco stava divorando parte delle foglie più grandi. Le mangiava con ingordigia, spostandosi in senso orario, ritmicamente, come una macchina programmata. Deglutiva i verdi bocconi ed ingigantiva man mano il proprio corpo smeraldino, striato di righe arancioni e nere. Mordendo, disegnava una spirale che si estendeva su tutta la superficie della foglia, fino a ridurla ad uno scheletro che, esanime, cadeva lento al suolo. Quel movimento circolare, così simile al moto dei pianeti intorno al sole, sembrava riprodurre l’immagine della Via Lattea. Le venature delle foglie così simili agli affluenti ed ai delta degli immensi fiumi che si riversano negli oceani, rendevano perfettamente l’idea di quanto tutto si appartenga in questo mondo, ed anche oltre.
Non vi è nulla che non sia connesso al resto. E’ un equilibrio talmente delicato che basta una sola perdita ad incrinare il sistema nella sua complessità. Un piccolissimo insetto non può aver visto dall’alto il moto delle galassie, eppure quel movimento risulta disegnato nel proprio codice genetico. Veniamo la mondo con una sorta di sapere cosmico. Ogni cosa è scritta in noi, ma la Natura non ce lo fa sapere subito, preservandoci in questo modo dalla follia.
Finito il pasto, l’animale passava a nutrirsi di un altro dei piccoli polmoni del tiglio. Sarebbe diventato una farfalla se un merlo, rapido ed affamato, non ne avesse fatto uno spuntino.
Immaginate il carapace dell’insetto che esplode e scrocchia sotto la pressione di un becco affamato. Il dolore immenso che deve provare e l’agonia che precede la morte qualche istante prima. La sua consapevolezza. Un’angoscia che non percepiamo, eppure è tutta intorno a noi. Ed al contempo vi è tanta di quella libertà che non riusciamo a riconoscere ed a cui voltiamo quotidianamente le spalle.
Quel nutrirsi vicendevole, crudele ed indispensabile, aveva ricordato a Diana il male che consumò sua madre dall’interno, uccidendola, due anni prima.
Rimase sola in fretta, una bambina di pochi anni senza la mamma, in un pianeta i cui abitanti si nutrivano vicendevolmente.
Pensò a quanto ogni cosa fosse vulnerabile, anche la più importante e maestosa del mondo, a quanto il caso, il destino, l’imprevedibilità di un evento, potesse rendere impotente persino un gigante come il suo albero, quel colosso che rallegrava i grandi edifici di periferia.
Si trattava di una pianta secolare, alta circa trenta metri, collocata nell’estremità destra del piccolo giardino, rettangolare ed incastonato tra quattro enormi palazzi grigi e marroni, spigolosi e senza balconi. Le finestre in fila, quadrate ed identiche tra loro, davano la luce a piccoli appartamenti. Nel caso dei piani bassi la luce non filtrava direttamente ma, nelle rare giornate di sole, era prodotta dal riflesso dei vetri che ricoprivano gli edifici di fronte.
L’incuria del piccolo lembo di terra, agevolava la crescita di piante selvatiche che, nella stagione calda, si sviluppavano incontrollate. Graminacee, papaveri, margherite, cardi e trifogli, in base a quello che il vento trasportava. I semi vagavano per la città, attecchendo ai rari spazi terrosi che incontravano. Le piante si adattano ai contesti urbani, si adattano ad ogni cosa con una forza ed una tenacia che l’uomo non conosce.
Possono crescere tra le fessure del cemento, in un vaso abbandonato alla polvere su un balcone, senz’acqua ma solo con l’umidità dell’aria o ai bordi di un marciapiede, sviluppandosi all’infinito senza l’intervento umano.
In quella parte di terreno lasciato al caso, da maggio a settembre esplodeva una vita imprevedibile di foglie e fiori che divenivano microcosmi di piccole esistenze, mondi piccoli dentro mondi grandi che nascevano e morivano, ogni giorno.
Gli abitanti della zona lamentavano la presenza di pozze d’acqua ristagnanti tra le piante spontanee dei condomini, ed il relativo ecosistema: rane, raganelle, zanzare, libellule e piccoli volatili che se ne nutrivano. In città questo era considerato degradante, per cui un team di architetti esperti aveva pensato di apporre, sul minuscolo prato lacustre che la stagione aveva improvvisato, una struttura in cemento armato e pietra viva, quella bianca, porosa e biologica, che mettesse le persone in contatto con la natura, ma di quale natura parlassero non lo capì mai nessuno.
L’albero sarebbe stato risparmiato; gli avevano persino regalato una decina di centimetri intorno al tronco, qualora avesse voluto evolversi ancora. Intanto la vita pullulava pregna di voli, salti, guazzi, gioie e dolori, i dolori delle piccole creature, le cui urla sono impercettibili ed indifferenti al nostro udito: I fringuelli catturavano i grilli, i barbagianni e gli astori cacciavano i fringuelli, pipistrelli e topi passeggeri banchettavano sbranando falene e libellule.
Diana osservava quell’universo in miniatura, guardando le creature posarsi sui fiori e le relative piccole scene di caccia. Pensava a quando suo padre le raccontava che oltre il mare c’era l’Africa, e nel cuore di quella terra esistevano foreste sterminate ed impenetrabili in cui vivevano animali sconosciuti ed infiorescenze profumate, grandi quanto automobili.
L’immaginazione della bambina, trasformava il piccolo lembo di terra metropolitano nella Savana più selvaggia.
Scendeva in cortile, di nascosto da sua sorella, l’unica maggiorenne che poteva accudirla, per guardare quel che accadeva tra le foglie spontanee. Era entrata, senza saperlo, in una visione ancestrale della vita a cui era e sarebbe appartenuta per l’eternità.
Nel pomeriggio, l’ombra del tiglio regalava al piccolo prato nel cemento, un ombra verde chiaro, che dipingeva il volto di Diana dello stesso colore.
L’albero infondeva un profumo intenso e dolciastro per tutto il quartiere, nelle interminabili ed asfissianti notti estive.
Le mancava sua madre. Le mancava la certezza di una madre. Le avevano insegnato che una madre è una certezza. Era nata molti anni dopo sua sorella, troppi. Indesiderata figlia, non ebbe il rapporto che avrebbe voluto con la genitrice, fredda e distaccata. Era una donna disabituata alle manifestazioni di affettività e tenerezza: probabilmente non ne aveva ricevute a sua volta. Le negava ogni volta carezze ed abbracci, rimproverava spesso sua figlia, continuando a confrontarla con le altre bambine, sottolineando il fatto che non fosse all’altezza delle cose, in qualsiasi campo.
Chiunque sarebbe stato migliore di Diana e questo glielo diceva a voce alta, anche in presenza di altri bambini. Le procurava ferite nel cuore, che non facevano in tempo a rimarginarsi prima che le se ne aprissero altre.
Il senso di insicurezza che le infuse il comportamento della donna, determinò la sua natura per tutta la vita, influenzando ogni scelta, da quella più banale alla più importante. Il dubbio su tutto: “sbaglio o faccio bene?”.
La donna aveva vissuto sua figlia per 8 anni, l’ infanzia più tenera, prima di morire. Ed in quel tempo le riversò addosso tutto il peso di una vita di ansie, rinunce e maltrattamenti subiti.
Portava su di sé l’esistenza intera, come mattoni nelle tasche di un giaccone di cui è impossibile liberarsi e della cui presenza ci si abitua faticosamente.
Diana osservava le case dei propri amici, calde, profumanti di cibi e dolci appena sfornati e pensava all’appartamento in cui viveva con la madre e la sorella maggiore: pulitissimo, asettico, triste e con le finestre sempre chiuse.
A sua madre nulla importava quali fossero i bisogni profondi della piccola: era di troppo, avrebbe dovuto lamentarsi il meno possibile.
Non credo che l’amore di un genitore nei confronti del figlio sia incondizionato, il fatto che si metta al mondo un bambino, non implica che lo si ami in assoluto. Esiste l’istinto primordiale, la cura, l’attenzione e la tenerezza, ma con i mesi e gli anni queste manifestazioni potrebbero anche inaridirsi, seccare come un alberello senz’acqua d’estate, trasformarsi in intolleranza ed indifferenza.
Non è detto che una madre ami necessariamente il proprio bambino. Anche questo aspetto della vita è legato, purtroppo, alla sorte. E la sorte di Diana non fu clemente. Sua sorella, gli anni che seguirono, la trattò allo stesso modo, con freddezza e praticità assoluta. Era quello che aveva imparato, il solo insegnamento ricevuto.
Diana si perdeva nella natura imprigionata tra gli edifici, si faceva forza, tentava di dimenticare ogni ostilità e rimprovero guardando le api, le falene notturne, i cardellini che sfrecciavano tra i rami dell’albero ed i rari macaoni che si posavano sui fiori di malva, cresciuti spontanei in quel letto di terra abbandonato tra le case alte.
Immaginava continuamente, come un fiume in piena.
Le bastava un piccolo dettaglio perché le si aprissero mondi incantati. Una goccia di ambra sul tronco ed una folata di vento fresco, le fecero pensare a delle sfere di ghiaccio posate sugli alberi, all’interno delle quali erano intrappolati i passeri, uno per ogni.
I passeri si sarebbero liberati dal ghiaccio con l’arrivo dell’estate, sarebbero rimasti immobili per qualche minuto, ed una volta caduti sul terreno avrebbero ripreso il volo scrollandosi l’acqua di dosso, come i cani.
Pensava queste storie inventate, ogni giorno, instancabilmente.
Guardava gli insetti e si chiedeva se sapessero della grandezza del mondo che abitiamo, del sistema solare e delle galassie. Forse non ne erano consapevoli, ed in quel caso doveva essere gioiosa la condizione dell’incoscienza, come la gioia degli stupidi. Oppure ne erano al corrente, e lo sapevano secondo criteri a noi incomprensibili.
Un giorno entrò in casa una gazza dalle lunghe piume bianche e nere. Il nero era lucente ed i riflessi del sole le davano tonalità blu-verdi.
Diana aveva instaurato una discreta amicizia con l’animale, avendola accattivata con piccoli regali, noci ed oggetti lucenti, molti dei quali l’uccello li prendeva autonomamente.
Decise di sfiorarla con la dita, in un momento in cui il pennuto le fu particolarmente vicino e poi di catturarla prendendola per un’ala. Non voleva farle male ma solamente osservarla meglio e più da vicino, accarezzarla. Fu la fine di quell’amicizia: la gazza si dimenò e fuggì via, senza fare più ritorno.
Quel giorno imparò una grande lezione da Madre Natura: non è necessario possedere le cose che ci piacciono, le si può vivere anche da una certa distanza, amarle libere, per quello che sono. Una farfalla catturata, perderà la propria bellezza dimenandosi tra le mani umide, come celle di un carcere. Meglio guardarla volare nella propria dimensione di libertà. Tutt’intorno a quei sogni si estendeva la periferia.
Grandi edifici di venti piani, color ocra e grigio chiaro, si alternavano a grattacieli sparsi e solitari come monoliti d’acciaio, vetro e cemento. Avevano piantato degli alberi in fila , per abbellire quella giungla di spigoli, ognuno con le proprie guerre quotidiane contro l’ombra e la fuliggine, ognuno con i propri desideri, desideri che non comprendevano quel luogo ferroso e buio.
La città sembrava non avere confine, si estendeva come una malattia degenerativa sul territorio, senza limiti. Dall’alto doveva sembrare un organismo dalle squame appuntite, col corpo grande, tozzo e minaccioso.
I biologi definiscono “super organismo” l’insieme di creature (ognuna con un proprio cuore ed una propria testa) che si muovono all’unisono, rispondendo allo stesso bisogno, in modo completamente sincronizzato, tanto coordinato da essere considerato un’unica forma di vita.
La città era questo: un mostro enorme, mosso da mostri più piccoli, in modo perfettamente ritmico ed uniformato.
Tra le vie si susseguivano edifici della stessa altezza, fatiscenti e pregni di umidità, dipinti di bianco, verde scuro, marroncino e grigio chiaro, scrostati e decadenti.
Il tempo e la pioggia avevano disegnato grandi macchie di muffa sulle facciate dei palazzi più poveri, macchie che sembravano cartine geografiche ottocentesche, con isole mai esplorate prima.
agli immensi alveari umani, si alternavano vecchie cascine di campagna, risparmiate solo per caso all’edificazione incontrollata avvenuta dopo la grande ripresa economica. Con l’avvento delle industrie tutti lasciarono le campagne e si recarono in città per lavorare nelle fabbriche, e per gli operai furono edificati smisurati casermoni. Più l’industria cresceva più s’espandeva la metropoli. In queste case vi abitavano immigrati, operai, impiegati ed ogni sorta di ceto meno abbiente. L’elegantissimo centro della città, monumentale e luccicante, era un concetto alieno, sia economicamente che come distanza da percorrere. I mezzi pubblici erano costosi e difficilmente servivano i margini della città. Tra le vie di periferia si susseguivano negozi “venditutto”, supermercati afro-asiatici, spacciatori, prostitute e laboratori ricavati nei grandi portoni popolari, da cui uscivano effluvi odorosi di zenzero cotto, cumino, e gas di scarico. Odori che, a causa dell’umidità estiva e dell’assenza di vento, si spalmavano su ogni cosa, densi. L’atmosfera di fine estate era giallo opaca e calda. Nessun raggio di sole tagliava l’aria.
Diana percorreva ogni giorno quel tragitto, prendeva la metropolitana alla fine della via. Calpestava cicche, foglie secche e pacchi vuoti di sigarette, abbandonati e stinti dal sole e dalla pioggia.
Un vecchio dormiva abitualmente nei mezzanini della metro. seduto sul linoleum nero della stazione, guardava lo straccio di un giornale in cui si propagandava una località esotica, dalla sabbia bianca, circondata da una vegetazione lussureggiante ed incantata. una vacanza che sarebbe costata solamente 2999 euro. Il vecchio sorrideva malinconico e rassegnato.
Diana camminava serena, quella mattina.
Sapeva benissimo di avere un grandissimo talento ma non ne parlava con nessuno: aveva un’immaginazione sconfinata. focalizzava, anche nell’inferno più nero, un angolo di paradiso incantato, imbrogliando se stessa e la propria condizione. Guardava una piccola fessura ed immaginava l’intero universo al suo interno, annullando tutto quello che c’era intorno. Guardava lo spigolo colorato del muro su cui danzava l’ombra azzurrina di un platano, concentrandosi su quel dettaglio ed inventando storie, dimenticando completamente la ferraglia violenta di auto e moto che vi erano parcheggiate davanti.
Quella volta fu distratta dagli storni. Milioni e milioni di storni sorvolavano la fetta di cielo sulla sua testa, erano tantissimi e si muovevano insieme in una coreografia perfetta, disegnavano un’unica massa nell’aria, sembrando un mega animale fluttuante che, ogni manciata di secondi, cambiava forma e sfumatura. Era il fenomeno definito “murmuration”, lo spostamento all’unisono degli uccelli. Ne fu sedotta quel pomeriggio, incantata a tal punto che più di una volta fu in procinto di essere investita dalle macchine in corsa.
Si trattava di uccelli migratori che si dirigevano a sud, spostandosi di città in città, oltre il mare, forse verso l’Africa, quella terra di cui le aveva parlato suo padre prima di scomparire nel nulla, quella terra oltre il confine del mare, il confine di cui la bambina chiedeva spiegazioni, ossessionata dalla curiosità.
L’Africa, le foreste vergini e primarie, era li che a Diana piaceva pensare andasse lo stormo intero. Sperò che arrivassero tutti salvi.
E così giunse la sera, più luminosa del giorno grigiastro, con l’arancio dei lampioni sull’asfalto nero che il giorno aveva sciolto. Quella notte si sudava stando fermi, e l’aria odorava di ferro.
Incastonato come una perla verde tagliata rettangolarmente, cresceva il parco.
Il parco di città. Sembrava inadeguato ed inopportuno ed a disagio. Vi erano stati piantati oleandri, cipressi, pini argentati, castagni, ciliegi, platani e narcisi. Davano l’illusione di una vita felice, se non fosse stato per tutto quello che era stato eretto intorno. Sugli alberi nidificavano tortore, tordi e cinciallegre. Ogni giorno i canti dei volatili erano accompagnati dal rombo degli elicotteri che supervisionavano il piccolo polmone verde, perché tutto fosse giusto, perché nulla contrastasse le regole scritte nei palazzi del potere.
Diana ci andava ogni giorno e guardava, tra le altre cose, l’elicottero sorvolare sul suo piccolo volto pallido. Immaginava fosse un grande animale volante, preistorico, che acchiappato al volo, avrebbe potuto condurla lontano nel tempo, dove le giungle primordiali ed incantate crescevano indisturbate, per poi ricondurla a casa prima di sera.
Trascorreva molto tempo in quel luogo, tra gli alberi di cachi dalle foglie verdi e violacee, ed i grandi tronchi dei ginko biloba in fiore. Nessun dettaglio le sfuggiva.
Le api ronzavano tra i fiori, piccole. La dimensione di quei corpicini striati era una fortuna: avevano una maggiore di quantità di verde a propria disposizione, come del resto le formiche ed ogni altro essere: per loro, quel giardino nel cuore della periferia doveva sembrare la giungla.
Potevano concepire, creature così piccole, la grandezza della città intera?
Amava gli insetti, spesso li salvava quando li vedeva agonizzare a pancia in su nelle pozzanghere, mentre dimenavano le minuscole zampette per evitare di soccombere alla morte. Si immedesimava completamente nel dolore di ogni creatura, anche la più piccola ed apparentemente insignificante.
È probabile che l’unico modo per mettersi in comunione con l’intero cosmo sia coinvolgersi nella sua parte più piccola.
Utilizzando rametti, o le stesse mani, raccoglieva gli animaletti dalle acque stagnanti delle pozze, e li disponeva nei posti asciutti, perché prendessero tutti i raggi del timido sole urbano, e ritornassero a volare. Quel pomeriggio raccolse due mosche ed una falena. Quest’ultima, esanime, divenne prontamente il pranzo di un ramarro passeggero.
Il giardino pubblico era luogo di avventure ed esplorazioni.
Il tempo impietoso e la maturità, in seguito, le insegnarono il significato di illusione. Il mondo incantato di bambina, che le aveva fatto sembrare tutto pulito, si dissolse con gli anni, come un corpo morto sotto il sole del Sahara.
L’importante spesso sfugge, sfugge alle vita come una piantina abbandonata sul davanzale, sepolta dalla povere della città, senz’acqua, della cui esistenza ci si accorge solo quando vengono estirpate le radici secche dal vaso.
Eppure il mondo vegetale non è così fragile come si crede: la forza ed il senso di sopravvivenza, contraddistinguono assolutamente queste creature apparentemente immobili.
Due isolati ad est rispetto alla casa di Diana, era nato un bocciolo con uno stelo esile e grigio chiaro. Si era fatto strada tra le crepe che l’incuria aveva aperto sul marciapiedi.
Qualche giorno dopo aveva già sviluppato due grosse foglia carnose che prosperavano parallelamente al fusto, che a sua volta s’innalzava dal suolo. Si trattava di un fico selvatico che in pochissimo tempo raggiunse l’altezza di circa un metro e mezzo, divenendo un vero alberello con diverse ramificazioni.
Ancorato al suolo, si sviluppava incurante del contesto in cui era nato, cresceva sempre più grande e maestoso, fino a fruttificare. Divenne il banchetto di uccelli e farfalle, un vero e proprio universo luminoso in un altro universo buio che lo conteneva, la città.
Ma non è detto che ciò che brulica di vita piaccia sempre agli umani, anzi, se questa bellezza irrompe nell’ordine con cui abbiamo stabilito che ogni cosa venga regolata, se non rientra in quello che abbiamo deciso di imprigionare nella gabbia mono-specie che ci siamo costruiti intorno, se non fa parte delle forme di vita che abbiamo stabilito di preservare, questa creatura spontanea, va inibita e soppressa.
in poco più di un mese l'albero crebbe così tanto che, per poterlo abbracciare, sarebbero occorsi più uomini in cerchio, tenuti mano per mano. Un susseguirsi di piccoli animali giunsero dai boschi vicini a colonizzare la pianta, creando un armonioso ecosistema che produceva versi, stridii, canti, svolazzi e profumi. in quel tratto di marciapiedi, che normalmente le persone percorrevano con la testa china diretti alla metropolitana, al lavoro, a scuola ed in ogni sorta di volontaria prigionia quotidiana, adesso c'era una nuova attrazione: un intero microcosmo.
in tutta la via s'irradiava luce nuova, tenue, accogliente. si erano persino placate le controversie esplose inizialmente tra fazioni che avrebbero voluto l'eliminazione dell'albero, contro chi desiderava preservarlo.
Sembrava che la bellezza avesse preso il sopravvento. ma come spesso accade in democrazia, le decisioni non spettano alle persone, ma ai governanti. era già stato stabilito l'abbattimento, deciso il giorno, l'ora e soprattutto la modalità. Il mondo umano non è sempre incline al bene ed alla vita e spesso
si incanala in dinamiche tremende, il cui senso rimane sconosciuto.
Il fico sarebbe stato ucciso il mattino seguente. Se Diana riusciva ad immaginare la giungla guardando un cespuglio, immaginate cosa provasse quando si arrampicava sul grande albero spontaneo, per sedersi sul primo e mastodontico ramo orizzontale che toccava l’edificio vicino. lei e tutti gli altri bambini avevano conquistato un proprio spazio personale sospeso nel vuoto, e non senza diatribe e piccole risse infantili. ognuno ottenne un proprio angolo di sogno, ad ogni ragazzino l'albero aveva regalato la parte esterna di un giardino personale e rigoglioso.
Tutti noi conserviamo un giardino dentro, spesso tutta la vita, senza mai accorgercene.
fu una fortuna, quella, a cui la città voltò bruscamente le sue spalle larghe ed appuntite.
La sera prima del taglio, Diana rimase in casa.
fu una notte strana, carica di energia nell'aria, calma. chi ne aveva voluto l'abbattimento sembrava essersene pentito, chi combatté perché l'albero rimanesse, pareva rassegnato alla sorte. in ogni caso vi era pace, complice il tepore, o forse il disco lunare che brillava di oro intenso, squarciando la lievissima foschia urbana, o probabilmente si trattava di quella serenità folle che precede le guerre.
c'era chi fumava affacciato alla finestra, pensando ad una vita diversa, chi dormiva in veranda sognando di planare sul mare o di volare sulle cime più alte delle montagne, chi, seduto sulle panchine pubbliche, si asciugava il sudore con un fazzoletto sporco.
quella notte fu particolarmente afosa, piena di pipistrelli che volteggiavano tra i grandi rami
del fico, quell'albero che il quartiere viveva oramai come un condannato a morte, cercando di convincere la propria coscienza che le decisioni prese avessero un senso e che non avrebbe potuto esserci alternativa.
tutti gli uomini, prima o poi, si convincono della giustezza dei propri mali, gli viene più facile, piuttosto che tornare sugli errori commessi ed evitarli in futuro.
per strada vi fu gente che passeggiava, insolitamente a quell'ora della notte, in settimana e soprattutto in quel lato angusto e periferico della metropoli. Tutti sembravano usciti dal proprio letargo esistenziale e si erano riversati nelle vie, occupando i tavolini dei bar vicini o semplicemente seduti sulle panchine a scambiare opinioni. fu un infusione improvvisa di vita, morbida e serena.
Alle cinque del mattino seguente, arrivarono puntuali ruspe e seghe elettriche. non si oppose nessuno. La magia delle ore precedenti aveva intontito tutti. Nessuna ribellione fu scatenata, nessuna decisione che potesse combattere quello che stava accadendo fu messa in atto.
la via venne chiusa, messa in sicurezza e blindata. gli operai cominciarono a segare i rami più grandi e laterali della pianta. Il primo ad essere reciso fu proprio il "giardino intimo e privato" di Diana, che crollò al suolo come un animale sparato in volo che rantola agonizzante, prima di morire.
i boccioli più verdi e piccoli continuarono a succhiare la linfa dalla madre, ignari che sarebbe stata l'ultima. Ramo dopo ramo furono recisi tutti, segati, spezzati, troncati a metà, precipitando nel vuoto. Gli uccelli
volavano via in gruppo, spaventati, arrabbiati. Gli insetti calpestati, le farfalle catturate, le lucertole bastonate dai lavoratori che se le vedevano fuggire sui propri scarponi.
fu decapitata la chioma e subito tornò una luce più chiara nella strada, una luce biancastra come quella di un'officina meccanica, triste, devastante, una luce che poteva invitare solamente a tornarsene in casa.
infine venne segato il grande tronco, alla base. si sparsero rivoli di liquido dolciastro sul marciapiedi, come lacrime di morte.
l'albero non c'era più, e fu tutto come qualche mese prima: desolazione metropolitana.
la ferita aperta sull'asfalto venne ricoperta con un efficace composto di ferro e cemento, di nuovissima invenzione. avrebbe impedito che altre piante potessero spuntare senza permesso. ma non trascorse molto tempo prima che il marciapiedi si crepasse nuovamente.
All’ inizio sembrò solo una piccola fessura. con il passare delle ore divenne una voragine profonda una ventina di centimetri, a cui ne seguirono molte altre, accanto, disposte circolarmente. spuntarono nuovi rami, rapidi e sicuri che, senza timidezza alcuna, ancor più velocemente della propria genitrice, si facevano strada, dall'asfalto alla luce. con la stessa grinta dei tentacoli di un polpo arrabbiato. A pochi giorni di distanza dal taglio, si ersero quattro giovani tronchi. Sembrava una sfida. Crescevano avvinghiandosi e contorcendosi l'uno all'altro, come se volessero farsi forza a vicenda, rapidissimi, occupando così tanto spazio, in breve tempo, che i pedoni avevano difficoltà a percorrere quel tratto e dovevano attraversare la strada per andare avanti. quel nuovo nato aveva le intenzioni di una sequoia, ma senza la minima voglia di pazientare tanto per diventare gigantesco.
si susseguirono operazioni di tagli su tagli, coperture di cemento con vetro, su cemento con vetro, coperture su coperture, lacerazioni troncature, mutilazioni, una dietro l'altra, con costi non indifferenti, eppure, come se il mondo vegetale stesse schernendo la piccolezza umana, l'albero ricresceva, sempre più possente, veloce ed alto. sembrava che qualsiasi tentativo di abbattimento servisse alla pianta per crescere di più. la situazione era fuori controllo.
ci si stava stancando ed arrendendo, nel frattempo il fico cresceva e lasciava cadere
grandi frutti dolcissimi. vi si erano radunati tutti gli affamati della città ed erano ritornati i piccoli animali ed i bambini. questo era ancora più imponente del precedente. mangiavano tutti, uomini, merli, vespe, moscerini, farfalle e pipistrelli. Gli alberi non conoscono avarizia, offrono dolcezza, sapore ed ombra ed ottengono che i propri semi viaggino lontani e siano fertilizzati.
il mattino seguente giunse un'equipe vestita di bianco, provvista di maschere antigas e guanti speciali per la situazione. avevano evacuato il quartiere di notte, perché non vi fosse alcun rischio di contaminazione. si palesarono davanti all'albero che non mosse neanche le foglie, sicuro che se anche lo avessero tagliato ed ucciso, sarebbe ricresciuto più forte di prima.
purtroppo l'uomo è un gran maestro nell'arte della distruzione, e questo, probabilmente il fico non lo sapeva, non immaginava quello che avrebbe potuto fare la macchina distruttiva appena messa in moto.
l'operazione stava per cominciare. tutti gli abitanti non sarebbero potuti ritornare a casa prima della settimana successiva.
fu sperimentata una nuova tecnica di manipolazione e "ricollocazione positiva" delle radici. un metodo nuovo che, se efficace, avrebbe potuto risparmiare tanta distruzione nel mondo, grazie all'ausilio del "controllo e della gestione delle modalità dell'esistere". se tutto fosse andato bene, se la nuova tecnica avesse funzionato col grande fico, sarebbe stata adoperata in migliaia di altri settori.
Nessuna occasione poteva essere migliore di una banalissima pianta di fico selvatico fuori controllo.
in quel caso l'albero non avrebbe subito alcun taglio. non vi erano seghe, tranciatrici, funi ed abbattimenti, nessuna di queste pratiche fu considerata quel giorno. e neanche agenti chimici in grado di distruggere il vegetale.
l'idea fu ancora più profonda, interna ed oscura: l'esperimento consisteva nel lavorare direttamente all’interno del codice genetico dell'albero, in quella parte del DNA che si riferiva alla volontà stessa del vegetale. Era come toccare l'anima della pianta, gestirle gli istinti primordiali, decidere come sarebbe cresciuta, senza innesti, potature e bastoni guida, semplicemente modificando la sua volontà ed i suoi desideri. da quel momento in poi, se l'operazione fosse riuscita con successo, il fico non avrebbe più avuto voglia di crescere verso l'alto, ma si sarebbe direzionato, al suolo, sarebbe cresciuto al contrario.
Tutto fu predisposto, e dopo una mattina di lavoro, agendo solo su un minuscolo lembo di corteccia, la missione fu compiuta.
Il grande albero rimase immobile per tutta la settimana, e poi due, tre, un mese intero, impassibile. il gran lavoro degli specialisti, sembrava non aver sortito alcun effetto. nella sua imponenza, nella sua immensa vitalità, nella freschezza delle grandi foglie dure e carnose, nella tortuosità vivace dei suoi rami, nell'esplosione dei suoi frutti viola, il fico rimase vivo, vivo e fermo. non perdeva foglie né crescevano di nuove. I rami non si seccavano, ma erano come congelati ed avevano smesso di avvincersi intorno a se stessi per farsi forza, come avevano fatto poco tempo prima. i frutti non cadevano marci, ma neanche se ne svilupparono altri nuovi. se si incideva la corteccia del tronco, non fuoriuscivano secrezioni e linfa. Vivo nella propria immobilità.
Stava accadendo qualcosa, e non solo alle piante su cui si era intervenuti, ma a tutti i vegetali della città.
il protrarsi del caldo, nei mesi autunnali, aveva creato in tutti l’aspettativa di un’estate che non sarebbe finita più, eppure, all'improvviso giunse il freddo.
le piogge si fecero intense, lavarono le foglie immobili, incrostate di polvere e smog.
gli alberi vivi e senza vita, furono scossi da gelide folate di vento, talmente forti che sembravano spezzare le chiome. le piante si muovevano indifferenti alle sferzate di aria fredda giunte da nord, come se non ne subissero gli effetti, come se fossero oggetti impermeabili, in plastica.
quella sinistra immobilità, quell'assenza inquietante di foglie gialle nella stagione rigida, le piante ancora rigogliose e fiorite col gelo, erano un pessimo presagio.
Nessun’albero a foglie caduche si spogliò, né pruni, né ciliegi, ippocastani, salici ed olmi, tutti verdi, intatti e spaventosamente bloccati.
sembrava che dopo l'intervento molecolare sul fico, ogni albero fosse stato bandito alla vita ma privato della morte: un'immobilità assoluta e senza speranze.
nevicò, così tanto da ricoprire le auto ed il manto stradale, seppellendo i suoni urbani minacciosi, sostituiti da una calma surreale ed un candore senza precedenti.
il cielo si ritagliava spazi stretti e rettangolari tra gli edifici, colorandosi di un rosa pallido.
eppure, neanche in questa occasione i vegetali persero i propri polmoni verdi, né i cachi, ne gli aceri assunsero quel caratteristico colore acceso che sfuma dall'arancio al rosso-viola intenso. non vi era stato il ciclo vegetativo stagionale.
il verde era impazzito, cristallizzato innaturalmente nel tempo.
in pochi si accorsero del fenomeno, non vi diedero peso, qualcuno pensò alle stagioni ed al clima che cambia. tutte generalizzazioni, ma nessuna importanza fu attribuita a quello che stava accadendo in città.
Nella metropoli si cammina rapidi, si segue un percorso preciso e ci si reca diretti all'obbiettivo, a testa bassa, delimitando lo sguardo ai mattoni su cui appoggiamo i piedi fugaci e stanchi, senza godere del vento, senza guardare il cielo, mai. Diana fu la prima a notare quella stranezza nel mondo verde urbano. Chiedeva spiegazioni a chiunque conoscesse e persino ai passanti ignari. tutti le risposero con sufficienza, senza darle risposte soddisfacenti. I pochi che notarono il fenomeno, trascurarono di dargli una motivazione.
Gli alberi si erano arenati in un sonno eterno senza morte.
agli inizi di febbraio si sciolse la neve. ogni superficie riprese i colori originari: grigio, ocra e nero bagnato. ai bordi delle strade giacevano cumuli di ghiaccio sudicio e fangoso, cumuli accatastati come resti di antiche civiltà scomparse tragicamente. rivoli d'acqua lercia scorrevano ai margini delle vie, diramandosi e sgorgando nelle grate delle fognature, annegando le blatte e dissetando grossi topi urbani.
il grande fico non si distinse dagli altri alberi. I fondi comunali per la ripulita e "messa in ordine" erano finiti e dell'albero, non si occupò nessun ente, né l'amministrazione.
come tutte le altre piante rimase fermo dove era cresciuto, senza più svilupparsi, né contorcersi, ne seccare. Rimase lì, paralizzato in quell'inquietante blocco vegetativo.
una scultura, una scultura in legno e resina, opera di un artista dotato di assoluto realismo. Tutti gli alberi sembravano artificiali, ma tutti respiravano.
c'era stato qualcosa di tragico nell'esperimento degli uomini in tuta bianca, solo per impedire all'albero di crescere su un marciapiedi. Probabilmente l’idea era molto più grande e complessa, forse, se l’esperimento avesse avuto i risultati attesi sugli alberi, avrebbe potuto essere sperimentato sugli uomini, per domarli. C'era il sentore che una mostruosità irreparabile stesse prendendo vita in città.
La primavera fu breve, succube di un caldo asfissiante che giunse troppo in fretta.
a due mesi dalla neve, il sole sembrava un ceffone di fuoco sulle guance dei passanti.
La gente stava cambiando, non solo gli alberi furono sottoposti a qualcosa di inspiegabile. Indirettamente ne furono influenzate anche le persone. Si cominciava a camminare più lentamente, forse era il caldo, forse qualcosa di molto peggio. tutti percorrevano gli stessi tragitti di ogni giorno con la testa china, innaturalmente rivolta verso il basso, a tal punto che alcuni toccavano il proprio petto con il mento. le persone sembravano contenitori svuotati dall'interno, divorati della propria materia e lasciati in vita senza lacrime, né cuore.
Diana sembrava essere stata risparmiata ed osservava i passanti che non si guardavano tra loro, né osservavano il cielo, tantomeno quello che circondava lo spazio limitato ai propri passi.
Quell'anno si infuse una sorta di malattia tra gli umani, un morbo senza precedenti: privazione assoluta della volontà. Questo male nuovo, aveva privato tutti del desiderio, dell’ individualità e della scelta. Sembrava che gli
uomini vivessero aspettando la morte che non sopraggiungeva, senza gioia ed ancor peggio senza dolore.
La bambina si sedeva sul muretto, il più alto di una grande strada, molto trafficata sia di auto che di pedoni, ed osservava tutto quello che accadeva, incuriosita e spaventata, ogni giorno.
vedeva i passanti trascurati, lenti, sempre più gobbi e chini su se stessi. Le auto non sfrecciavano più a gran velocità ma mantenevano un'andatura costante ed annoiata. gli alberi sembravano plastici, nessuna foglia cadeva, nessuna sbocciava, né bruchi, né parassiti attanagliavano i tronchi, nessuna macchia di vita. Era inquietante, pauroso.
cos'era successo? cosa stava accadendo?
le venne immediatamente il desiderio di scappare, non riuscì a trattenerlo, né a ponderarlo lucidamente. Sapeva solo di voler andare verso il mare, lontano da quel luogo mefitico.
solitamente Diana organizzava le sue piccole cose, con accuratezza e responsabilità, nonostante la giovane età. quella volta reagì d'istinto, rapida.
tornò a casa, lasciò un biglietto a sua sorella maggiore, senza spiegare troppo dettagliatamente la questione che la stava spingendo ad andare, prese un panino, un sacchetto di biscotti ed una bottiglietta di aranciata e fuggì.
Non sapeva in che località sarebbe arrivata, sentiva solamente che avrebbe dovuto recarsi al mare.
Corse in stazione e comprò un biglietto per la località costiera più vicina. Grondava di sudore in quel marasma di persone infiacchite e sempre più chinate verso il basso.
Anche il treno sembrava portare su di se tutto il dolore dell'universo. Pesante, rovente, andava a rallentatore.
Diana impiegò il giorno intero per raggiungere la costa, ignorando dove dormire. Aveva dei soldi con se, recuperati rompendo un copioso salvadanaio, più delle banconote ereditate anni prima da sua madre. Ma era una bambina, non poteva esporsi troppo senza dover dare necessariamente spiegazioni.
In due ore i binari lasciarono la calca e l'immensità urbana.
dai finestrini scorreva lento il marciume che la città defecava intorno a se.
cumuli di spazzatura trasportati da ogni luogo della terra si accatastavano senza limite.
Lattine, bidoni che avevano contenuto veleni di ogni sorta, cibo avariato, ruote di scorta consumate, vetro, sacchetti devastati dal tempo e dagli uccelli, plastica arroventata e deformata, ovunque. L'odore nauseabondo si spandeva nell'aria e rimaneva corposo nelle narici. ma la cosa più bizzarra in quello spettacolo desolante fu l'assenza totale di volatili, che di solito sono presenti in ogni contesto in cui ci sia del cibo, o ciò che ne resta. Avrebbero dovuto esserci per lo meno gabbiani e corvi. invece nulla. Nel cielo, a parte un lieve venticello indefinibile e strano, non vi erano ali.
dal finestrino entrava l’odore dell’aria pesantissima. nel treno incombeva un silenzio tombale, nonostante fosse pieno di persone. Il ronzio di un grosso moscone urtava pesante sui vetri, sembrava ancora più greve e rimbombava per tutto lo scompartimento. La bestia non sapeva, evidentemente, che c'era un ostacolo trasparente a dividerla dalla libertà, e vi sbatteva il corpo tozzo con tutta la forza, come fosse un sacchetto di sabbia in volo, tentava di andare, senza successo, quante volte capita a tutti noi!
sembrava ci fosse la consapevolezza di aver perso qualcosa, l’espressione della gente era cupa e cosciente di quel che stava succedendo. Era accaduto, irrimediabilmente. Ora tutti lo sapevano. Qualcuno pianse in silenzio mentre il treno proseguiva, adesso a velocità sostenuta.
dopo molte ore il paesaggio cambiò radicalmente, il vento dalle finestre era senza dubbio più fresco e profumato, le colline piene di alberi in fiore, la vegetazione vivace, nessuna foglia sembrava mummificata, si potevano vedere i rondoni sfrecciare e le farfalle bianche posarsi sui fiori di campo. il mondo, in quel punto, sembrava sano. Tutti furono colpiti da fremiti di incontrollabile entusiasmo, l'erba fresca, cresciuta spontanea sui binari in corsa ed a cui nessuno aveva dato importanza fino ad allora, era diventata motivo di brio e meraviglia.
Il mare nei dintorni.
Diana era esaltata, non lo vedeva da tanto tempo, era solo una bambina, le cui richieste di poter correre libera sulle spiagge, per poi tuffarsi nelle fresche acque sotto il sole estivo, difficilmente venivano esaudite. S'intristì solamente al pensiero di quel tiglio che accompagnava le sue giornate in casa e nel giardino. Che fine avrebbe fatto? aveva letto e sentito che quella fase di "auto-plastificazione" vegetale, quella condizione per cui ogni albero sembrava non mutasse secondo i cicli stagionali, né crescesse oltre, né morisse, fosse solo un periodo momentaneo, che avrebbe portato poi alla morte della pianta.
Ma sapeva anche, nonostante fosse giovane, che le persone esagerano e si allarmano troppo facilmente.
pensava che senza quel grande compagno, sarebbe stato inutile ritornare nella piccola casa priva di amore, in periferia.
Una volta a destinazione, tutti sapevano già dove andare. Molti dei passeggeri erano attesi in stazione, altri si recarono in Hotel e B&B puntualmente riservati, altri in case di amici, altri ancora in bifamiliari affittate. In questo trambusto organizzato, tra mappe spiegate nelle mani della gente, ricerca di indicazioni stradali, gruppi fuori e dentro il piccolo bar antistante i binari, valige, borse e borsette accumulate a terra, in questo gran delirio, Diana si guardò intorno come se cercasse qualcuno. Era sola, lo era abitualmente, e quella condizione, li nella stazione, non la scosse.
Mangiò due panini al prosciutto, bevve dell'acqua e si avviò verso la spiaggia, guardandosi bene che non fosse notata dai poliziotti: ad una bambina avrebbero certamente chiesto spiegazioni e l'avrebbero riaccompagnata tra i condomini mortali da cui era fuggita.
Camminò circa venticinque minuti prima di raggiungere la meta. una pineta separava il villaggio dal mare. Oltre gli alberi, dune piene di spine azzurro grigio e gigli selvatici si stendevano verso il mare, calmo e plumbeo, come un grosso animale che dorme e respira profondamente.
vagò per ore sulla sabbia, stanca, affascinata e desolata al contempo. il vento le scompigliava i capelli scuri che diventavano piccole fruste accanite sulle guance rosse. si addentrò nella macchia mediterranea, cercando un luogo in cui passare la notte, riparato dal vento e da chissà quali mostruosità. Aveva ancora del cibo nel piccolo zaino. La casetta, dipinta con la calce bianca, le si presentò davanti all'improvviso, dietro un grande tamerice piegato dal maestrale.
Doveva essere stato l’antico rifugio dei pescatori. Fu il più grande dono che quella giornata poté farle. Bussò alla porta senza ottenere risposta, guardò attraverso le finestre ricoperte di polvere e ragnatele abbandonate,
tentò di aprirne la prima ma non ci riuscì. La casa era disabitata ma chiusa. Ci fu una potente folata di vento che scosse l'esile porta in legno azzurro. Diana capì che non si trattava di porte sigillate ermeticamente, come in città, e decise di forzarla. Non ci volle molto, bastò l’esile spallata, la spallata di una bambina in cerca di rifugio. Fu dentro. La casa buia con le imposte socchiuse. un grande tavolo in legno chiaro, sgombro e polveroso, pavimento in pietra chiara irregolare, due sedie di cui una sfondata al centro, una rete da pesca ed una falce appesa al muro di tufi grezzi. Nient'altro. Avrebbe dormito per terra, o sul tavolo.
Niente male, pensò, sempre meglio che all'aria aperta, con l'umidità marina che di notte incombe su ogni cosa.
Fuori dal piccolo fabbricato, il cielo era diventato bianco, una coltre di nuvole piatte
aveva offuscato il sole, rendendo il mare calmissimo, aveva lo stesso colore argenteo del mercurio fuso. vivevano un piccolo agrumeto e due palme, nel giardino abbandonato, eppure quell'entusiasmo iniziale cominciava a prendere una piega nuova. Diana era inquieta. Nonostante la bellezza tutta intorno, qualcosa di sinistro vibrava nell'aria.
Un'immobilità inquietante che non seppe spiegare. Guardava gli alberi e cercava di capire se fossero stati colpiti, anche qui, dal male dell'indifferenza. Forse si. Prese un arancio, era vuoto e secco, il frutto di un anno prima.
rientrò in casa e, rannicchiandosi stanca in un angolo, si addormentò. Sfinita.
Quel che accadde un anno prima, segnò indelebilmente il destino della città, e di tutto il suo circondario (forse anche molto oltre).
All'inizio dell'estate si manifestarono eventi che pochissimi scienziati seppero comprendere, chi capiva era spesso al servizio dei potenti e non dava spiegazioni chiare alla gente. L’ inverno non aveva visto la perdita delle foglie da parte di alberi solitamente caduchi. Come fossero ingessati, bloccati in una non vita, non marcivano, né si sviluppavano.
Improvvisamente, ed anche con rapidità, i rami avevano ricominciarono a vegetare, ma non più verso l'alto, bensì in direzione della terra. Si piegavano su se stessi, ma non come se stessero seccando, sembrava piuttosto che, invece della luce solare, cercassero le tenebre del suolo.
Si piagavano e crescevano in giù, tutti all'unisono. Le foglie di ulivi, peschi, olmi, aceri e platani che prima sembravano rigide, ora cominciavano ad arrotolarsi come mani che si chiudono in pugni stanchi con i polsi rotti.
Senza esclusione, ogni albero rivolgeva le proprie braccia verso le radici che, incastrandosi al terreno, lo sprofondavano. Sembravano delle gabbie di legno, al cui interno, imprigionato, c'era il tronco. I grandi alberoni che rinfrescavano i viali dalla malattia umana, i tigli profumati, le agili e bianche betulle che fornivano ombra alla città, i salici piangenti, come chiome di capelli al vento, i gelsi rossi con i frutti succosi che tingevano di viola intenso i marciapiedi nelle giornate estive, niente più esisteva adesso. Le piante direzionavano la chioma verso l'humus, come se volessero implodere.
Gabbie, gabbie le cui sbarre erano formate da rami, si susseguivano per le strade.
Anche il tiglio gigante di Diana cominciò ad avanzare verso il basso, riducendo drasticamente la propria dimensione. S'inabissavano volontariamente, seguendo qualcosa di incomprensibile. La terra sembrava inghiottirle con ingordigia, lasciando che fuoriuscisse solamente una gobba ricurva e legnosa.
Le piante che prima germogliavano come ombrelloni, lasciando crescere le proprie fronde orizzontalmente, adesso, piegate le proprie braccia, somigliavano alle strutture scheletriche delle gonne settecentesche.
quelle che invece avevano ramificazioni verticali, come i pioppi ed i cipressi, in quell'inversione di rotta, finirono per sembrare dei ponti, poi archi di legno, fino a scomparire del tutto, inghiottiti, lasciando visibile solo una parte del fusto. La città era diventata un palcoscenico surreale, ricoperta di una coltre spessa e polverosa. Tra gli edifici si avvicendavano, con rigorosa geometria, strutture legnose avvinte in se stesse, capovolte e sepolte nella terra brulla ed oramai ingenerosa. Esperti e studiosi si occuparono del fenomeno involutivo che coinvolse gli alberi. Inabissandosi nei sotterranei della metropoli, si erano trovati davanti uno spettacolo che contrastava qualsiasi legge fisica conosciuta sulla terra.
Furono colpiti, oltre che sedotti da quella visione allucinante: interi boschi pendevano dal soffitto, come lampadari di rami. Era la conseguenza della crescita arborea al contrario. Il fatto fu osservato ed ammirato
per ore, per giorni interi, eppure nessuna decisione venne presa a causa dell’inerzia che dilagava in ogni campo della società. Nella città, ed anche oltre i suoi confini, s’insinuò l’ignavia. L’assenza assoluta di desideri e di volontà prese il posto degli entusiasmi che avevano reso la città brillante, colta e grande, fino ad allora.
L’accidia la stava divorando, l’avrebbe poi rigurgitata sotto forma di magma nero e maleodorante.
Tutto seguiva i ritmi di sempre, gli uffici, i servizi, i mezzi pubblici, i negozi, ma ogni attività era depauperata di volontà, iniziativa, colore. A nessuno interessava quello per cui stava operando. Passività, svogliatezza, stanchezza, questo divenne il luogo che un tempo fu il mito indiscusso dei sogni realizzabili e del benessere collettivo.
Anche la postura delle persone si mostrava ricurva. Nessuno guardava verso il cielo, o proiettava il proprio petto all’orizzonte, nessuno più camminava rapido, fischiettava, correva: ognuno, chiuso in un proprio letale e buio microcosmo, procedeva lento ed angosciato. la pazzia se ne stava rinchiusa in un silenzio tombale, come cibo in scatole di latta che stanno per esplodere.
Masse di umani seguivano i flussi di tutti i giorni con la testa bassa, alzando lo sguardo solo per estrema necessità, in metropolitana, nei tram, per le strade, al lavoro ed in casa.
Piegata, la città pulsava nella propria fuliggine scura.
Gli antichi vialoni erano divenuti un susseguirsi di curve vegetali inghiottite dal basso, le tracce ancora vive degli alberi eclissati ed opposti al sole, come vampiri innocenti.
Quelle chiome maestose che un tempo avevano ospitato stormi di uccelli migratori, adesso erano divenute le porte per lo stomaco della terra ammalata.
In pochi mesi scomparvero tutti i volatili. Qualcuno si rese conto che la metropoli era stata abitata da gazze, tortore, merli e colombi, solo quando sparirono, lasciando vuoto e desolazione nel cielo privo d’aria fresca. Avevano scelto di volare altrove.
Una mattina, il resto gobbuto d’un castagno si squarciò, come lo stomaco d’una mucca morta che esplode a causa dei gas contenuti al suo interno. Il processo si diffuse ovunque.
Quel che restava delle piante secolari cominciò a creparsi e sbottare. Sembravano bocche ovali in procinto di vomitare. Seguirono lenti rigurgiti di melma, costanti, dall’odore intenso
e nauseabondo che velocemente si espansero per le strade, le case e le piazze. Un magma grigiastro che emetteva odore di ammoniaca, gomme bruciate ed urina. L’aria si fece irrespirabile e mortale. Senza vento non vi fu alcuna possibilità di ripararsi da quella nausea brutale.
Le secrezioni continuarono incessanti per giorni ed il fango prese il posto di ogni decoro urbano.
La sostanza prodotta dalle piante, fredda, pareva ribollire e si contorceva come fosse viva ed agguerrita.
Più il lezzo si faceva intenso e stagnante, più gli abitanti di quel luogo oramai impossibile, divenivano stanchi, indifferenti e ricurvi.
Quel malanno non aveva ucciso solo i corpi, ma gli animi e l’indole delle persone, rendendola remissive e svogliate. Morirono gli animali domestici, i cani, i gatti, soffocarono tutti. Si estinse ogni insetto. Gli uomini no.
Tutti in perfetta salute fisica ma sempre più storti e piegati su se stessi, tanto che col passare dei giorni alcuni cominciarono a camminare in ginocchio e strisciare sul suolo come vermi feriti. Eppure, tutto sembrava funzionare come sempre, come se nessuno si fosse accorto di quel che stava accadendo.
Funzionavano le scuole, gli uffici, gli autobus e le edicole. Si alzava la testa quando era necessario, per guidare ad esempio, o per usare gli strumenti di lavoro, per poi ritornare nel proprio mondo devastato ed interno. Non si parlava del problema: la non esistenza, senza spicchi emozionali, suggestioni e volontà. Alcuni, nella melma, si bagnavano compiaciuti, nuotando in senso orario. In pochi giorni diventò l’attività più amata in città.
Come lacrime della terra in lutto, il magma stava sconfinando oltre i limiti urbani e si dirigeva verso la costa che distava centinaia di chilometri. Lentamente. La natura, ignara del nostro affanno, ha i suoi tempi, ed ottiene quello che vuole.
Diana trascorreva i suoi giorni sulle dune davanti al mare, lasciando che il maestrale le scompigliasse i capelli nerissimi che le si agitavano sul volto e sulla fronte. Talvolta, guardando quella bellezza, immaginava il suo funerale. Le si riempivano gli occhi di lacrime: se fosse morta chi l’avrebbe pianta? Si commuoveva da sola, si induceva stati emozionali, inventandosi eventi e storie.
Combatteva, senza saperlo, il male più grande che aveva colpito la città dopo il disastro: l’indifferenza.
Intanto la cancrena s’avvicinava al mare.
Nessuno era a conoscenza della logica di quel che era accaduto. Gli uomini si erano abituati a subire i giochi dei potenti e le strategie incomprensibilmente grandi, finalizzate alla ricchezza di pochi, a discapito della povertà di tutti gli altri. Si erano abituati a non capire quello che i re del mondo progettavano per salvaguardare le proprie pance. Rassegnandosi a quel sistema, sottomettendovisi, tutti ne traevano piccoli vantaggi. Era questa l’inclinazione scelta dall’umanità. Quella volta, però, la devastazione sarebbe stata irreparabile. La situazione era fuori controllo. Sentiva il vento che le urtava la schiena e le accarezzava la nuca, un vento sinistro, un vento che giungeva diritto dall’entroterra.
Quei venti precedevano gli uccelli che, sempre più numerosi, planavano i cieli sulla testa della bambina, percorrendo la traiettoria aerea che dall’interno conduce alla costa. Si trattava evidentemente di fuga più che migrazione. Aumentavano ogni giorno, i cieli si erano riempiti di piume e versi striduli. Non nidificavano, non sostavano troppo, i volatili si fermavano solo per bere e poi riprendere il cielo.
Milioni di ali si spiegavano nel vento: fenicotteri rosa, gabbiani e cuculi, sterne, cavalieri d’Italia, oche, anatre, cormorani, gufi, civette e rapaci d’ogni genere.
Insieme verso l’orizzonte in cui il mare scompariva nel cielo, oltre la linea di confine che la foschia aveva cancellato, rendendo il paesaggio una tavola d’acqua argentata e vapore. Volavano piano, alcuni planavano prossimi alla terra, talmente vicini che Diana poté scorgerne l’espressione spaventata degli occhi.
Sembrava si disperdessero nell’immensità, lasciando in ricordo penne screziate che si posavano di tanto in tanto sulla sabbia, sulle rocce e nella macchia. Ne cadevano tante, di ogni sorta, affusolate, tozze, tondeggianti, sottili, blu striate di nero, bianche con macchie nocciola chiaro, rosse, viola scuro e riflesse di arancio. Il mondo alato si era riversato sul mare e percorreva lo stesso tragitto.
La bambina trascorse intere giornate a guardare quello spettacolo. che non si placava mai.
Tornava nella casetta solamente per riposare qualche ora di notte, altrimenti l’umidità le avrebbe impedito il sonno, o per mangiare, o per ripararsi dal vento, quando si faceva intenso. Il resto del tempo lo trascorreva sulla duna per guardare quello spettacolo. Di tanto in tanto pensava a sua sorella, a quanto sarebbe stata preoccupata, al fatto che sicuramente avrebbe allertato la polizia, oppure non era successo nulla?
Quell’annullamento di volontà che aveva ammorbato la città e che era pronto ad estendersi fino al mare, quel male dell’animo, aveva colpito anche quel che restava della sua famiglia, la polizia ed i vicini, tanto da renderli completamente indifferenti alla sua scomparsa? Forse si, in ogni caso non le interessava. Non se ne preoccupò più di tanto.
Nelle sue profonde ed attente osservazioni, Diana aveva notato che gli uccelli non fuggivano senza meta, bensì seguivano un percorso preciso. Avevano un posto in cui rifugiarsi e vi si stavano recando. Questa intuizione, con il passare delle ore, divenne sempre più concreta.
Notò le montagne all’alba. Fu una grande sorpresa.
Come ogni mattino, prima che il sole fosse alto, si era appostata sull’altura sabbiosa, lasciando che la brezza tiepida che soffiava leggera da sud est, le accarezzasse il volto. Socchiudeva gli occhi ed ascoltava i canti degli uccelli in volo, in quel moto che non si era mai fermato.
Quanti erano ad abitare il pianeta?
Vide la montagna quando il vento spazzò via l’ultima foschia notturna, rendendo il cielo limpido e terso. Alta, celestina, si ergeva quasi invisibile all’orizzonte, marcando il confine tra acqua ed aria.
Si trattava di tre speroni rocciosi, evidentemente molto alti, che si ergevano lontani nel mare.
Un’isola, un isola remota, persa nel silenzio, un’isola la cui bellezza fu chiara solo quando il vento levantino ripulì il cielo dalla foschia mattutina, regalandole la visione di quella terra incantata e selvaggia, forse. Tre punte di montagna erte come sorelle, a fare da guardia allo spazio.
Al centro era issata la più alta delle tre.
Chissà quali bellezze avrebbe potuto raccontare quel posto, se fosse stato risparmiato all’ingordigia devastante degli umani.
Diana si sentì privilegiata, credette di essere la sola ad aver scoperto quel posto mistico che le nebbie tenevano nascosto allo sguardo di chi abitava la terraferma. Si sentì di doverlo visitare, spinta da un istinto di appartenenza e territorialità che non aveva mai avuto in precedenza.
Era casa sua, e non lo aveva mai saputo prima di allora. Ma come poteva essere possibile?
Era certa di non esserci mai stata!
Si guardò intorno, presa da un irrefrenabile senso di possesso, volle assicurarsi di essere sola. Aveva subìto la distruzione, sapeva bene quello di cui i suoi simili erano capaci, conosceva quanto distruttiva fosse la sua specie, per questo desiderò che nessuno scoprisse il segreto: l’isola non sarebbe stata rivelata, nella maniera più assoluta.
Era li che si dirigeva quel flusso costante di uccelli, ne erano gli antichi abitanti, e le sembrò di vivere lo stesso ancestrale legame col territorio sconosciuto.
Come una casa di riferimento, grande e protettiva, l’isola le infondeva una tale sicurezza e maternità, che decise di trascorrere la notte in spiaggia. sfilò dal suo zainetto una coperta che aveva con sé e se la avvolse intorno al corpo, morbidamente. Una brezza leggera e tiepida soffiava piano, da sud. Lo scirocco.
Si addormentò pensando alla città, a quello che stava irrimediabilmente incupendo la metropoli, all’immensità di quella landa in cui giaceva calma, in compagnia del solo vento, ed ai palazzi oscuri tra i quali era cresciuta. Li, si era sentita spesso una falena, catturata e rinchiusa in una scatola di cartone su cui erano stati creati dei buchi ,perché respirasse, ed in quel giaciglio opprimente aveva tentato la fuga, urtando, dimenandosi, finendo capovolta ed agitando le sei zampine, mentre dai fori sarebbe arrivata la luce ad illuminare l’agonia sul suo volto. Così si era sentita, privata della porporina che quella prigionia aveva strappato alle sue ali.
Il sole che nasceva a Levante, le scaldò i piedi e la guancia. Un cinguettio frenetico la svegliò dal sonno profondo in cui era caduta. Quello che vide, aprendo gli occhi neri, fu uno spettacolo senza precedenti.
Centinaia di passeri l’accerchiavano, cinguettando furiosamente, richiamando a se la propria attenzione. Avevano una caratteristica inquietante e bizzarra: la testolina incastrata in piccole gabbie di ferro . Trasportavano l’involucro di metallo che gli imprigionava il capo, con grandissima naturalezza. Sembravano essere nati in quel modo, convivevano con quelle sbarre come se non avessero mai conosciuto un’altra condizione nella vita, che non sembrava, in ogni caso, infastidirli troppo.
Per tutta la propria vita, i passeri avevano ottenuto il cibo dagli uomini. Col tempo avevano perso l’istinto che anticamente permetteva loro di procacciarsi vermi, frutta e semi.
E Madre Natura, con la complicità dell’evoluzione, aveva teso loro questo inganno tristemente scherzoso: li aveva fatti nascere con la testa in gabbia. Quei volatili erano venuti al mondo così e, come ossa, organi e muscoli, le grate metalliche costituivano parte integrante di quei piccoli ed esili esseri.
Pareva che si nutrissero recandosi nei centri abitati, entrando nelle case e cantando. In cambio i bambini, fornivano loro il cibo necessario, per poi lasciarli volare (se lo avessero voluto). Col tempo colli e becchi avevano perso elasticità.
Non avevano più avuto bisogno di strappare lombrichi al terreno o di staccare frutti dalle piante. Si erano atrofizzati ed irreparabilmente incastrati nella volontà altrui.
La forza di gravità terrestre li scherniva ad ogni volo. pendevano il capo disastrosamente, verso il basso, ad ogni planata nel vuoto. Ai volatili era già accaduto quello che stava succedendo alla gente di città, raggomitolata
in se stessa con la testa bassa e rivolta al suolo. Diana non ne era stata afflitta. Si inorgoglì per questo, e non volle indagare sui motivi che l’avevano risparmiata.
Si stropicciò più volte gli occhi neri, non capiva se fosse sveglia o stesse percorrendo quel mondo opacizzato ed imprevedibile dei sogni.
Realizzò, in pochi minuti, che non si trattava di una visione onirica quella che le si palesava davanti.
I passeri le volavano addosso posandosi sui piedi, sulle braccia e sulla testa, facendole percepire il freddo delle sbarre in ferro che imprigionava le proprie piccole teste.
Offrì loro i biscotti che aveva con se, infilando le dita in quelle strutture che l’evoluzione aveva circoscritto intorno ai capi bruni dei pennuti. Si urtavano rumorosamente e quando il numero degli uccelli crebbe a dismisura, il silenzio della spiaggia fu violato. Era surreale ed ipnotico il suono che si diffuse, come lo scampanellio delle mucche che pascolano tra i prati di montagna, accarezzati solo dal vento.
Sostavano pochi minuti sulla sabbia, per poi volare freneticamente verso l’isola.
Ritornavano nuovamente indietro, circondavano la bambina, le sfioravano i capelli, cinguettandole contro, per poi dirigersi ancora verso il largo e volteggiare indietro.
Un’altra volta. Era un invito.
Volevano accompagnare Diana sull’isola e stavano insistendo. La piccola, che dopo aver scoperto la visione di quel posto disperso nell’acqua, non aspettava altro, non esitò ad accondiscendere, eccitata.
S’alzò e scese dalle dune, dirigendosi verso la costa. Gli uccelli, consapevoli di essere stati compresi, si levarono in volo soddisfatti.
Diana camminava dolcemente, affondando i piedi nudi nella sabbia fresca che il sole del primo mattino cominciava a scaldare.
L’orizzonte marino s’apprestava a diventare una lastra d’oro abbagliante.
Ogni passo era accompagnato dai volatili con la testa penzoloni. Si assicuravano che la bambina si recasse a riva, le giravano intorno vivacemente.
Giunta al mare, lasciò che la spuma salata e rosata le sfiorasse le dita dei piedi, regalandole un fremito.
Stava per salpare, partire e raggiungere quel mondo incantato e sconosciuto che si ergeva pallido all’orizzonte: l’isola delle tre sorelle rocce.
Le costruirono una morbida culla coi giunchi. L’avevano intrecciata finemente, utilizzando l’abilità delle esili zampette. Quel che da anni non facevano coi becchi lo realizzavano con le dita ossute, magre ed unghiate. Il contenitore somigliava ad un fiore di loto chiuso, dentro il quale Diana avrebbe potuto viaggiare comoda e sospesa, con la complicità del fruscio marino e della tiepida luce lunare che trapassava le maglie di quel nido volante che l’ospitava. Gli uccelli agganciarono decine di corde a quel giaciglio, corde che si diramavano in molteplici estremità, ognuna delle quali sarebbe stata legata alle zampette dei passeri che, levandosi in volo, avrebbero accompagnato la bambina sull’isola.
Temporeggiarono fino a sera.
Giunse la notte, morbida e pesante come un mantello blu cobalto, e cominciò il viaggio.
Il volo era dondolante e lento, si poteva percepire la calma rassicurante ed il torpore, in quella nicchia di paglia dalle cui trame vegetali penetrava la fluorescenza delicata della luna che sorgeva. Sotto, di se vedeva lo scintillio delle lievissime onde in bonaccia. Era come stare su di un’altalena coperta che oscillava pacata, con la costanza di un orologio a pendolo.
La terra ferma era scomparsa, lo capiva dal fatto che non si percepiva più alcun elemento che non fosse acqua. L’immenso l’avvolgeva con la tenerezza di qualcosa che rassicura ed ha nel contempo il potere di uccidere e strangolare.
La luna s’innalzava come se volesse sedersi su di un trono, da cui avrebbe infuso il sonno al mondo intero. la sua forma circolare, intensa e perfetta, si rifletteva nel mare quieto. Intima e discreta, non come il sole. Il disco luminoso nello spazio era tondo. Il suo riflesso invece era modulato da piccole onde regolari e pacifiche agitate dal mare. Il sole riflette luce sulla luna che la fa scintillare nell’acqua. Ogni cosa è viva, reale, solo perché ce n’è un’altra che ne assorbe l’energia, ed ogni cosa ha bisogno di quel che la circonda perché possa esistere e vibrare. Ogni cosa ha motivo di “essere” solo perché ruota in un moto collettivo, è presente ad un moto collettivo, vive dentro un moto collettivo. Senza, scomparirebbe senza lasciare traccia. Non si è nulla senza coesistenza.
Questa mancanza uccise la città, isolata nei propri angoli.
Viaggiava piano, spesso rasentando l’acqua, altre volte elevandosi in altezza, prendendo quota, oltrepassando piccole e rare nuvole in balia dell’atmosfera. Gli uccelli perseguivano una traiettoria precisa, gestita dalle correnti che percorrevano lo spazio, e poi, nuovamente verso il basso, come se volessero sprofondare negli abissi dell’oceano, senza mai toccarlo.
Sotto, illuminate dalla pudica luce notturna, nuotavano le creature dell’acqua. Si inabissavano nelle profondità, per riaffiorare dopo poco, mentre i passeri, che già da ore avevano smesso di agitare le ali, planavano lenti, condotti silenziosamente dall’aria dolce.
Andavano diretti, verso l’isola delle tre sorelle di pietra, con la complicità del vento d’entroterra che li spingeva al largo. Si andava. Di tanto in tanto la nebbia rabbuiava la luce, che ricompariva a tratti come un faro irregolare.
Mi addormentai per qualche ora, eppure mi erano sembrati pochi minuti. Svegliata dalle voci rauche di albartos e pellicani che volavano intorno alla mia cabina in paglia, aprii gli occhi. guardai attraverso le maglie del nido su cui avevo viaggiato tutta la lunga notte. Ero sull’isola e la guardavo, maestosa. Quella che mi era sembrata una pietra emersa dalle acque pochi giorni prima, adesso era una terra intera, che con i raggi timidi dell’alba, si
tingeva di un rosa pallido ed oro. Dolcemente, i miei cocchieri alati ed ingabbiati, mi posarono sulla fresca sabbia sottile che circondava quel luogo magico. Volarono via, senza saluti e cerimonie. Come chi ha compiuto un lavoro dovuto con dovizia e pazienza. Fui sola, mi abbandonarono come se avessi saputo quello che avrei fatto. Uscii timidamente dal giaciglio. Oltre la spiaggia, arbusti alti un paio di metri precedevano una giungla immensa, erta come un muro vegetale alto, oscuro ed impenetrabile, dentro il quale sembravano echeggiare suoni a me sconosciuti. La foresta si estendeva e si arrampicava sul monte sovrastato da tre grandi speroni rocciosi.
Dovetti guardarli alzando il capo: l’altezza di quella montagna insormontabile, era impressionante. Si ergeva come un tempio sacro il cui ingresso è proibito a chiunque.
Sola, confusa ed incantata, mi incamminai verso la radura che cominciava dopo la spiaggia. Nelle mie orecchie echeggiava il suono spumoso del mare alle mie spalle, mentre dilatavo le pupille, ancora assonnate, alla luce timida di un sole annebbiato dalla foschia prodotta dal bosco. Quel posto, però, seppe rilassarmi immediatamente. L’erba era soffice e priva di ostacoli, intervallata da alberelli si ibiscus, adorni di grandi fiori rossi e giallo splendente. Prima della folta giungla scura, crescevano alberi di mango, talmente carichi di frutti maturi, che i rami si inarcavano, offrendo la possibilità di godere di quei succulenti e zuccherini doni. Ne mangiai qualcuno e fui sazia. Erano freschissimi e dolci.
Mi sedetti di spalle al mare. Davanti a me l’immensa giungla si arrampicava sull’altura.
Gli alberi si intrecciavano l’uno all’altro creando una trama che lasciava appena intravedere l’interno buio ed invalicabile di quel luogo. Vi era solo un passaggio, un’apertura più ampia ed alta circa cinque metri che si faceva strada tra la vegetazione, come fosse l’ingresso di una grotta.
Intravedevo il buio verde scuro che permeava all’interno della selva. I suoi suoni che rimbombavano acuti nella sua cassa armonica. Farfalle grandi come due mani affiancate, blu e nere, si facevano strada dentro e fuori da quel posto oscuro. Trascorsi la giornata così, senza preoccuparmi della notte, senza minimamente pensare che una belva carnivora avrebbe potuto dilaniarmi e fare di me la propria cena, e mi distesi nell’erba guardando la foresta, ipnotizzata, finché giunse il buio, così nero che le stelle mi parvero miriadi di piccoli soli luminosissimi.
La curiosità uccise il gatto, si dice. probabilmente il felino fu attratto da qualcosa che trovava entusiasmante, più di quel che si creda. Quando una certa bellezza ti si presenta agli occhi per la prima volta, hai voglia di toccarla, senza curarti dei rischi che possano seguirne. E' il principio dell'amore. il mattino seguente decisi di penetrare quell'anfratto che conduceva nel fitto bosco. Era l'unico pertugio, l'unica apertura che poteva condurre nel cuore di quel luogo mistico, scuro e profumato di muschio, fiori e paura. Fui preceduta da un insetto grande come il mio volto, che volò rapido su di me, sfiorandomi il capo. Sembrava un uccello ovale, verde smeraldo striato di viola fluorescente. Aveva ampie ali trasparenti, le zampette posate sul busto e grandi occhi cristallini, uno scarabeo gigante. Mi ignorò del tutto e si perse nella vegetazione inesplorabile, lasciando solo l’eco di un rombo, prodotto dal volo rapido. La fioca luce rifletteva sul suo dorso lucido e metallico. Un gioiello che non si può possedere, impossibile da incastonare. Libero come l'aria. Come i passeri dalle gabbie sul capo, tornava indietro e riprendeva il suo viaggio fino a perdersi tra le foglie gigantesche e sgocciolanti. Pensavo non si curasse di me, invece, anche lui, mi stava invitando da qualche parte. Cosa avrei potuto fare, se non andare dove chiedeva? Oltretutto lo avevo già fatto il giorno prima, non avevo scelta, minuscola ed insignificante, ero in balia dei segnali che interpretavo, degli animali che mi invitavano e dei sentieri che vedevo comparire miracolosamente sotto i piedi e mi sentii un granello insignificante di polvere. In quel momento crollò tutta l'importanza che avevo dato alla mia persona, pensai al nostro pianeta che, se fosse esploso, avrebbe creato uno sbuffo invisibile rispetto all’immensità dello spazio che la circonda, la sua esplosione non sarebbe stata avvertita neanche dalle galassie più vicine. Cos'ero, se non un elemento tra tanti in quel cosmo di rami intrecciati? Il pensiero mi sollevò da ogni responsabilità e pesantezza. Se fossi morta, semplicemente le molecole che compongono la mia materia, si sarebbero trasformate in altrettante forme di esistenza. E' così che funziona tutto, come un mosaico perfetto, in cui ogni pezzo ha importanza, perché venga mantenuto l'equilibrio. Seppi, in quell'istante, che dentro di me vi era tutto, le piume, le chiome dei manghi, il muso dei cervi, le volpi, le rocce bagnate dai torrenti, l'acqua ed il vapore delle piogge torrenziali, la terra umida e la sabbia. La leggerezza tornò nel mio petto, si diffuse nel cervello, deresponsabilizzato dal peso dell’essere umano, e mi incamminai scalza nella fittissima erba fresca. Cercai un rifugio e mi addormentai nella bocca che un mastodontico eucalipto millenario spalancava all'altezza delle radici spesse. Grande, si curò di me, come un padre.
Ci sarebbero volute tre persone per abbracciare quell’ albero, tanto era grande. chiaro, liscio e striato, come se fosse stato levigato da uno scultore maestro del marmo. Non riuscivo a vedere la chioma nella sua interezza: altissima, andava perdendosi nell'oscurità densa della notte e nelle nebbie di passaggio. L'ingresso della tana era stretto, mi graffiai le braccia per entrarvi e sentirmi protetta dal buio sconosciuto, ma una volta dentro ci si poteva accomodare bene in posizione rannicchiata. dormii profondamente, esausta. Il mattino seguente guardai fuori dalla foresta. Li dentro l'aria era pesantemente satura d’acqua, sembrava si potesse tagliare, corposa, materica, bagnata e calda. Dunque uscii a cercare la leggerezza del fresco. La grande giungla produceva nuvole e vapori tiepidi che si incastravano e si dissolvevano, come pesci che si mangiano a vicenda. Sapevo che avrei dovuto percorrere la via opposta al mare e penetrare nella selva. voltai le spalle all'oceano e mi addentrai nuovamente in quel portone che si apriva tra la vegetazione. Mi spinsi qualche metro in più rispetto alla sera prima, verso l'interno. Era una cattedrale di rami intersecati a foglie grandi come persone, gocce e liane tanto strette da creare un soffitto che non lasciava penetrare la luce, ma solamente il riflesso verdastro di un sole, che fuori doveva splendere forte. Ero nella foresta. Camminavo timorosa in quel sentiero poco delineato, guardando i suoi lati inviolabili.
Muri di piante legate le une alle altre, come guardiane che difendevano un posto a cui era bandito l'accesso. tra queste barriere si aprivano dei varchi, di tanto in tanto.
Dovevano essere passaggi per animali, le cui impronte erano metodicamente sepolte dalle piogge e dalla fanghiglia vegetale, brulicante di insetti variopinti e ragni, prede e predatori. Le scimmie sembravano prendersi gioco della mia inabilità, urlavano e si dondolavano scomparendo nel folto del verde. Di quelle creature potevo percepire solo le dimensioni e le ombre.
Tutto si muoveva circolarmente, a spirale, in senso orario. Le forme dei fiori, la danza di alcuni uccelli, i germogli delle felci che si srotolano sotto lo stimolo debole della luce nel sottobosco, come a voler imitare il movimento dei pianeti.
Ogni cosa si somiglia, nulla è escluso dall'insieme universale in cui ci spostiamo quotidianamente, all’unisono, in una stessa nave, ma non ce ne accorgiamo e continuiamo a sentirci differenti, ad edificare angoli rigidi, spigoli e quadrati immobili in cui abitiamo sacrificati, eppure, intorno a noi, tutto sembra seguire un’altra orchestra. Fiori ed orchidee mai viste prima esplodevano di vita, spuntando dalle rampicanti avvinte ai tronchi altissimi, gli unici che vedevano il sole diretto. Il mondo, qui sotto, era madido. Camminavo lenta, stordita, sedotta da quei profumi dolciastri, dai colibrì, dai grandi insetti mimetizzati che riconoscevo solo se fuggivano. Camminavo per un sentiero sconosciuto che sapevo di dover percorrere come fosse un tragitto quotidiano. Andavo per inerzia, senza conoscere la forza che mi guidava e della cui natura non mi ponevo domande.
La volta arborea si abbassava man mano che procedevo, a tratti sentivo un senso di soffocamento. Eppure mi sembrò di conoscere quell'atmosfera da sempre. Percepivo che tutto era dentro di me. Ogni informazione era collocata nel mio codice genetico da milioni di anni. Le mie cellule dovevano essere state carne di bruchi, scolopendre, funghi e sterco, questa fu la mia sostanza molto tempo prima. Ci sono dei messaggi negli anfratti microscopici della nostra materia, ed io li sentivo come un cieco che ritorna a vedere.
Mi parve a quel punto di esser nata li. Sconfissi la paura: lasciai la via e mi addentrai in uno dei passaggi che si aprivano nella parete verde che avevo costeggiato fino a quel momento.
Seguivo qualcuno o qualcosa, non lo sapevo, ma il mio istinto doveva essere impeccabile in quel momento e mi conduceva. Mi muovevo carponi nella semioscurità in un dedalo di radici ed arbusti, calpestando il fango pieno di vita, con mani e ginocchia. Serpenti variopinti e tarantole percorrevano il proprio sentiero attraversando le dita delle mie mani che si facevano strada, affondate nella terra bagnata. Strisciavano indifferenti, calmi, sicuri. In città ero terrorizzata dai ragni, qui non ci feci caso.
L'aria si faceva sempre più umida, sentivo il frusciare di un ruscello. Doveva essere vicino. Ne sentivo l'odore e lo stavo seguendo, come i tapiri, i giaguari ed i rettili che vanno ad abbeverarsi, seguivo il percorso che mi avrebbe portato all'acqua.
dopo circa un chilometro di fatica, mi ritrovai in una radura rotonda, ampia come la piazzetta centrale di una piccola città.
Tutt'intorno il muro compatto della giungla, le cui chiome si intrecciavano tra loro impedendo la visione del cielo, si toccavano e si avvinghiavano da un capo all’altro del diametro di questo spazio circolare. Il prato vergine ed inaspettato, ospitava uno stagno immobile ed argenteo. Sulla superficie galleggiavano ampie ninfee che esplodevano in grandi fiori bianchi, striati di rosa, alcuni in forma di boccioli, altri aperti completamente, al capolinea della propria vita.
Avevo avuto paura di entrare in quel posto, poche ore prima mi spaventava il buio, adesso camminavo carponi, complice di lucertole e scorpioni. Mi sentivo sicura, piena, parte di ogni materia in quel luogo. Ero foglia macerata al suolo, carcassa, mosche, fiori, ali di farfalla, scolopendre aggrovigliate, ragnatela, piume di ibis, vapore e legno marcio; ero ogni cosa in quello spazio, lo ero sempre stata e me ne stavo accorgendo, una comunione con l’universo che mai avrei immaginato: tutto era scritto e descritto dentro di me. Percepivo le punte delle radici che avevano penetrato il mio corpo decomposto milioni di anni prima, le sentivo affondare ed aprirsi verso la luce, diventare germogli, alberi e morire. Quanti passeggeri dovevo aver conosciuto nel frattempo. Come ogni cosa mi muovevo a spirale intorno alle piante, intorno allo stagno, dentro me stessa.
con questo pensiero, supina, col viso sprofondato nell'erba, mi inoltrai nel lago melmoso, fresco e profondo.
ogni vita muore e ritorna differente, in molteplici forme, ognuna delle quali porta in sé la memoria di quello che è stato.
entrai in acqua, prima in ginocchio, poi di pancia, con la naturalezza delle tartarughe che si liberano dalle uova schiuse proiettandosi verso il mare, incuranti di chi è in attesa di divorarle.
Non avevo mai avuto istruzioni a proposito, eppure sapevo cosa fare. Libera, come un polpo sfuggito al pescatore, nuotavo in quell'elemento nuovo e d'istinto cominciai a respirare, come se avessi risvegliato le branchie del pesce che dovevo essere stata miliardi di anni prima, in quel lago piccolo e cristallino sepolto nella giungla.
Mi facevo largo con grandi bracciate tra la foresta di alghe che fluttuava leggera in quel mondo verde azzurro. Le foglie ondeggiavano delicatamente, amoreggiando con le correnti dello stagno.
Occhi luminosi mi spiavano attraverso le voragini, le rocce e le foglie fitte che nascondevano un’oscurità abissale. Non temevo nulla, solamente nuotavo in questa foresta sommersa nella foresta. Respiravo come se questa dote appartenesse da sempre alla mia natura.
Era una pianura inabissata quella in cui sguazzavo, un ampia radura di vegetazione oblunga che si interruppe sul ciglio di uno strapiombo, oltre il quale gli abissi profondi facevano cambiare il colore dell’acqua che diventava di un blu scuro cobalto intenso. Mi lanciai come un condor dal picco della montagna, verso la profondità remota, senza il timore di schiacciarmi al suolo, consapevole dell’assenza di gravità. ruotavo su me stessa
come una giovane otaria. Sentivo le mani trasformarsi in pinne, ed i piedi che gestivano spinte e movimenti in quell’azzurro infinito. Di quanto movimento ci priva la pesantezza terrestre? Che fortuna, pensai, hanno sempre avuto pesci ed uccelli, ed in quel momento mi sentii privilegiata rispetto alla mia razza.
Nuotavo di gusto, provavo ogni postura e traiettoria, allargavo braccia e gambe per poi ritornare stretta come un siluro verso il basso, e poi ancora in superficie. Ero barracuda, tartaruga marina e pesce rosso, ero alga staccata dal fondo e plancton. Ero libera.
Ruotando, vidi l’ingresso nero della grotta. Si apriva dal fondo proiettandosi in alto, come una bocca oscura e vorace che avrebbe condotto nelle viscere del pianeta. La guardai, fluttuai intorno, ne fui attratta, come insetto dalla luce, e vi entrai.
L’interno del pertugio pietroso era talmente fosco che dovetti far riferimento soltanto al tatto per potermi orientare, ed il mio non era certamente spiccato come quello delle creature che abitavano la selva. Li non filtrava alcun raggio di luce, ero nel ventre delle rocce, l’acqua diventava più fredda, a tratti gelida, il sentiero stretto, sempre più opprimente. Ora ero in un vicolo buio, mi muovevo, nuotavo pianissimo ma senza vedere nulla, toccavo le strette pareti pietrose ricoperte da soffice spugna. Mi soffocava il luogo per l’assenza di spazio e di vista. Dovetti tenere le braccia strette al corpo per muovermi. Lo spazio era così ridotto da non consentirmi un nuoto spazioso.
Dopo qualche metro in questa condizione, mi ritrovai in un sito apparentemente senza uscita. Non vedendo, toccai i confini di quello spazio chiuso che dava l’impressione di una una sacca dura e rotonda, un luogo in cui la mia persona poteva stare solamente rannicchiata, con le braccia strette intorno alle gambe e le ginocchia che toccavano il mento, giravo intorno ad un unico asse invisibile, prima in un verso poi nell’altro. Ruotavo come in una lavatrice rallentata, dolce, tiepida, muschiata. Respiravo piano, con gli occhi inutilizzabili, chiusi. Le labbra semiaperte lasciavano entrare l’ossigeno necessario alla mia vita. A tratti mi addormentavo in quella pace. Avrei anche potuto morire in una simile condizione, invece stavo nascendo, e come in un parto fui spinta fuori dalla pressione che l’acqua aveva creato vorticando in quel nido confortevole. La corrente che mi sospinse violentemente fuori, cogliendomi di sorpresa, mi lasciò stordita in uno spazio aperto e luminoso, in cui tornai a vedere.
Ero riemersa. Stanca, sfinita, avevo voglia di abbandonarmi sulla superficie asciutta, ma nessuna spiaggia supportò il mio bisogno. La terra ferma su cui mi appoggiai era insolita, sembrava una collinetta viscida, costruita di piastrelle ovali, lucide e screziate, su cui era impossibile fare presa: potevo mantenermi a galla col moto leggero delle gambe. Osservai quell’isolotto su cui tentavo invano di arrampicarmi, lo guardavo spiando il fondo e la superficie. Non era terra, ma una carpa gigante, viva, immobile e sospesa. Il grande occhio lucido e fluorescente si trovava in corrispondenza del mio piede inabissato ed in movimento. Era sommersa per un quarto, ne fuoriusciva solo parte del dorso, quello che mi era sembrata un’isoletta gigante, immobile, doveva essere li da sempre, cresciuta e divenuta grande quanto quello stagno, per lei doveva essere impossibile andare oltre, ed era diventato un luogo fermo e stabile.
Completamente priva di agitazione, si era abituata a quella condizione.
Lo stavo facendo anche io, volevo dormire, fermarmi, placare le bracciate, rallentare i piedi, le ginocchia, il respiro. Sprofondai passivamente, annaspando, con gli occhi socchiusi. guardai la sua bocca gigantesca, nell’opacità dell’acqua. Sputava sfere coriacee. Osservai la traiettoria di questi oggetti catapultati, dagli abissi all’aria.
Smuovevano l’acqua, lasciando cerchi concentrici e schiumosi. Percorrendo una traiettoria arcuata, cadevano sul suolo della giungla che vibrava tutta intorno, emettendo un tonfo sordo. Mi feci forza, ma era come tentare di muoversi quando si è nella condizione del dormiveglia. Risalii in superficie per vedere. Man mano che i piccoli globi toccavano terra, esplodevano come semi, generando alberi, che crescevano vorticosamente, disattendendo la naturale lentezza che contraddistingue i vegetali. Ogni volta che sfioravano l’humus germogliavano, e divenivano piante gigantesche tra le mangrovie. Prima lunghi steli davano vita a due rami, poi si facevano legnosi e quadruplicavano, poi otto, sedici, venti, cinquanta, e foglie ovali si facevano strada e riempivano le chiome da cui si schiudevano fiori indaco e cremisi, carnosi, grandi come teste umane, ed il profumo si irradiava e stordiva di dolcezza l’aria satura di umido, in tutta la selva sgocciolante e buia. Arrivavano pappagalli e colibrì, ghiotti del nettare gustoso che colava dai petali setosi.
Uno solo di questi semi, probabilmente, avrebbe potuto salvare la città tetra e polverosa da cui ero fuggita, avrebbe potuto sollevare le schiene curve degli uomini implosi nella propria auto distruzione e ridare vita al grande parco, ormai decomposto nella melma. Ne avrei presa una, una sola di quelle sfere legnose che la carpa immobilizzata, donava generosamente, una sola sarebbe bastata per restituire la città al mondo dei vivi, l’avrei portata in grembo, rifatto il tragitto e sarei tornata a casa. Ecco cosa stavo cercando, persa in quella magia, sprofondai. Mi lasciai andare senza opporre resistenza, assorbita dalla grande bocca del pesce. Avrei preso un seme dopo il sonno e sarei tornata tra gli edifici, dove nacqui. Ora dovevo dormire, serena.
La prima ad entrare fu Andreina, seguita timidamente da Lena. Andreina era una signora di settantacinque anni. Più giovane di me. Portava i capelli raccolti in una crocchia precisa che sistemava impeccabilmente ogni mattina, color glicine chiaro. Il suo corpo minuto era avvinto in una mantellina di merletti bianchi e delicati. Profumava di vaniglia cotta e sapone di Marsiglia.
Non forzarono la porta, semplicemente si fecero strada ruotando la maniglia in ottone. Le mie amiche migliori, da sempre. Mi aiutavano nelle faccende domestiche poiché io, vecchia ed immobilizzata ad una sedia di ferro, non ero in grado di gestire la casa. Si prendevano cura di ogni dettaglio, soprattutto della salute di due piantine di violetta sul mobile accostato alla finestra, debolissima fonte di luce e nutrimento per quelle creature indifese.
La finestra, l’unica, era bloccata da un’impalcatura abbandonata da molti anni, la ferraglia impediva alla luce di irradiarsi in tutto lo spazio. Lavori in corso mai completati, ruggine ed un unico raggio di sole timido e verticale, era quello che disponevo come visuale. Il mondo lo immaginavo seduta davanti a questo scenario, inventavo i paesaggi ed i luoghi con i limitati mezzi a disposizione del mio sguardo. Che facevo se non sognare il mondo che non potevo vedere? Qui mi trovarono, seduta su quella sedia che aveva avvolto il mio dolore immobile per tutta la vita. Non ero mai uscita da quelle due stanze, deambulavo facendo ruotare le grandi ruote metalliche.
Di sera, guardavo per ore le figure dei grandi libri naturalistici che affollavano gli scaffali disordinati del bilocale. L’amore delle mie amiche, rendeva meno violenta la permanenza del mio corpo su questa terra. Si occupavano di ogni aspetto che potesse donare benessere alla mia esistenza.
E poi la forza fisica, l’affetto e la praticità di Carlo e Matteo, gli innamorati del primo piano, aveva fatto si che non mi mancasse nulla. In realtà non ero mai riuscita ad essere concretamente sola, grazie a tutti loro, se non nel mio desiderio di volare oltre quella sottile fessura bloccata che divideva il mio microcosmo dall’immenso mondo esterno, a me sconosciuto. Molto mi aiutava il ramo del tiglio gigantesco che, prepotente, si era fatto strada radicandosi nel piccolo giardino. Quella volta fu l’ultima volta, l’ultima visita, non ero più nel corpo che tutti avevano conosciuto, la mia materia si affrettava a trasformarsi per prendere corpo in altre moltitudini di esistenze.
Ero morta così, con l’espressione meravigliata, ancora impressa sulle labbra socchiuse, gli occhi sbarrati e lucidi. Fu Lena ad accarezzarmi le palpebre per rendermi più intimo l’ultimo viaggio.
Mentre piangeva copiosamente, le lacrime gocciolavano sulle mie guance fredde e pallide, come se volessero tentare di animarle, di far rivivere il caratteristico rossore che le aveva caratterizzate fino al giorno prima.
La prima ad accorgersi della sorpresa che avevo riservato loro fu Andreina: tra le due era sempre stata quella più attenta ed arguta.
La tavola imbandita a festa, preparata per un pranzo luculliano, di cui nessuno si era accorto. Si erano fiondate inutilmente sul mio cadavere, senza guardare l’ambiente circostante.
Rimase a bocca aperta, e senza distogliere lo sguardo da quell’abbondanza, incitò Lena perché vedesse nella stessa direzione che la stava ammaliando. Il tavolo quadrato in noce, era stato cosparso di fiori di lavanda privati dello stelo, e l’effetto era parso come se lo spazio fosse stato coperto con una spugna lilla e profumata. Lo strato compatto ricopriva la superficie legnosa come una spessa tovaglia.
Al centro era sistemato un grande vassoio in ceramica pieno di formaggi, verdure fresche e crude, prosciutti di ogni sorta, pane fresco, crostini con creme di olive e cipolla rossa, bruschette all’aglio, pomodorini e basilico, peperoni grigliati e ripieni, zucchine trifolate ed acciughe marinate. Vi erano caraffe stracolme di vino, dal profumo di fragola e legno, ma quel che più impressionò, fu che la vecchia aveva predisposto quattro differenti pietanze, una per ogni invitato, ognuna delle quali avrebbe dovuto (e ci azzeccò)
rappresentare l’indole e la personalità dell’ospite a cui era dedicata.
Furono chiamati i ragazzi del primo piano. Matteo sapeva tutto, sapeva di quella sorpresa. Aveva aiutato Diana nell’ultima delle sue follie, la sera prima. Aveva cucinato su richiesta, secondo le rigide direttive della vecchia ed assecondato ogni suo desiderio, anche perché questa gli aveva spiegato perfettamente i dettagli ed il senso di quella festa bizzarra. Matteo era più pratico del suo compagno, che invece avrebbe pianto, consolato e distratto Diana da quell’idea, a lui sarebbe sembrata una pazzia. Buono come il pane ma privo di immaginazione.
Un quarto d’ora dopo i quattro furono a tavola a scoperchiare i piatti ancora fumanti. I profumi si fondevano, ognuno guardava il proprio piatto ed inevitabilmente, incuriosito, faceva capolino sugli altri. Ad Antonina fu riservata una composizione di cozze fresche con zenzero, porri e succo d’arancia, adagiate su vive foglie di basilico.
Lena ottenne una zuppa bollente di fave, fiori d’ibisco e menta piperita, coronata da un filo d’olio d’oliva.
Matteo cucinò anche per sé, ovviamente, seguendo i consigli della vecchia signora, maccheroni con salsa di pomodorini e fichi d’india. Carlo, infine, una grande carpa in umido con porri e topinambur e la bocca riempita di semi di sesamo. Fu il trionfo dei sapori e del profumo. Ognuno assaggiò tutto e mangiò il proprio. La delizia degli occhi, dell’olfatto e del palato, inondò la camera non più vuota.
Tintinnavano i calici colmi di vino, e più Bacco scendeva nei gorghi di quelle quattro gole malinconiche, più la commozione, l’euforia e l’eccitazione aumentava.
Antonina intonò un canto, un valzer, subito seguito da mani ritmiche e forchette battute sul vetro e sul tavolo, poi si alzarono continuando a ritmare con la voce e con i piedi pestati sul suolo di quel vecchio condominio e danzarono, danzarono come ossessi, impazziti, esagitati, divertiti fino alla morte, in coppie, in tre, solitari, insieme, fino a cadere esausti, distrutti ed ubriachi per terra. Lasciarono che il respiro affannoso ritornasse alla normalità ed all’unisono si alzarono, avevano avuto la stessa idea: si precipitarono in ascensore, tutti insieme, senza silenzio, senza discrezione, ridendo ed urtandosi, gli uni agli altri. Giunsero in cortile e raccolsero tutte le foglie, i fiori, i rami e le fronde che quel minuscolo angolo terroso di spigolosa periferia riservava.
Portarono tutto su, graffiandosi ed inciampando, adagiarono la vegetazione recuperata sul pavimento .
Distesero delicatamente il corpo di Diana su quel giaciglio. Matteo prese ciuffi di lavanda dispersa sul tavolo, che sembrava oramai un campo di battaglia in rovina, e lasciò cadere i fiori ancora profumati sul volto della vecchia che aveva l’espressione ancora vivida. Si adagiarono accanto al corpo, ebbri, mentre il vino celebrava la sua magia facendo ruotare ogni cosa in tondo, proprio come fanno i moti delle sfere celesti. Si addormentarono, convinti che avrebbero raggiunto l’anziana amica in un sogno ancestrale in cui giocare per l’ultima volta insieme. Fu il silenzio, la notte. I profumi si adagiarono sui respiri pesanti.
L’oscurità che sopraggiungeva, legittimò la magia di quella chimera.
Visti dall’alto, tutti insieme, sembravano un grande tiglio argentato, di cui Diana era il tronco e gli altri le ramificazioni, imitate con le braccia aperte di chi s’era addormentato profondamente all’improvviso. Un albero, un albero abbattuto, un albero d’appartamento.
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